"Sobibor" di Claude Lanzmann
"Momenti tristi" di Mike Leigh
"La quinta stagione" di P. Brosens e J. Woodworth (recensione)
Ecco il
dramma della normalità implodente, della reiterazione di abitudini e pensieri,
nella rappresentazione plumbea e sorprendente di La quinta stagione. Opera interessante, di una narratività
sinfonica inconsueta, che nel figurativo vede il comporsi e il rifluire della
tensione espressiva, di una modulazione del vedere che è mimesi del sentire
vagheggiante e oscuro del villaggio. La scena riprodotta dal film belga è luogo
di un malessere al contempo arcano e contemporaneo, isola-non-isola calata
dentro il reale e la favola ma altera fuoriuscita da una rappresentazione mainstream. Immagini come quadri in un
fluire denso, ipnotizzante, dove l’en
plein air rispecchia la dominante figurativa che contribuisce a modellare
il senso della rappresentazione, la sua compiutezza estetica. In un paese in
cui l’attesa diviene perpetua, dove all’inverno non succede la primavera, ogni
pallida incrinatura di un reale ordinario si fa metafora, segno dissonante di
un disegno altrimenti tutto previsto. L’imprevedibilità è ricercata nella
figuratività narrativa cadenzata dall’atonalità dei tempi e delle attese, nel
chiasmo di una tensione emotivo-espressiva che si rapprende nell’ambiguità
delle immagini. Immagini-simbolo, o, più sovente, immagini-enigma; come la
ragazza appesa all’albero sospesa su di un mondo dove non è più possibile
sognare, come il quadro in apertura con il gallo sul tavolo in attesa di essere
forse giustiziato, perché la carestia e la fine dei tempi non permette ulteriori
attese. Il nuovo film di Peter Brosens e Jessica Woodworth è una
sinfonia tragica in cui il ricomparire del “destino” coincide con la messa in
atto e la riproposizione irretita di temi arcani, che riportano l’uomo alla
superstizione, all’ignoranza. In un paese non identificato, in un tempo
prossimo, le mucche hanno smesso di produrre il latte, le galline non fanno più
le uova e ora anche la primavera non sopraggiunge. In questo lungo inverno da
incubo si cerca un capro espiatorio, e si fa presto a trovarlo. Ritornano i
riti umani in onore di un non ben identificato Dio, dopo che Dio è stato ucciso
dalle abitudini. Gli alberi spettrali simboleggiano ciò che è stato, e palesano
la malattia del nostro rapporto malato con la natura. Nevica quando dovrebbero
rispuntare i fiori e dinanzi a questi segni sconcertanti non sappiamo come
fare. Il film, filosofico e suggestivo, riecheggia motivi del
cinema europeo contemporaneo, dai Dardenne a Von Trier. La tematica arcana si
lega all’oggi, alla domanda degli ecologisti dinanzi alla scomparsa delle
specie animali e al rarefarsi di comportamenti che esprimano una visione
olistica non episodica. La fantascienza è la chiave allegorica che conduce il
racconto al tema dell’apocalisse. Dal Belgio un film che invita a riflettere, a
interrogarsi sul mistero della natura. La grande bellezza che è anche un tema
filosofico, un rievocare la potenza suggestiva del sentimento estetico, del
gusto come criterio (s)oggettivo del conoscere. La grande bellezza
ecologico-figurativa come tensione partecipativa al futuro, iconico, figurativo,
esistenziale, ecologico, del nostro sguardo sul mondo. La fantascienza
cinematografica ha rappresentato, almeno dagli anni Sessanta di Hallucination (Losey) e Il mondo nuovo (Godard) - per citare soltanto
due momenti illustri - il tramite espressivo dell’utopia capovolta. Un
capovolgimento che ritroviamo in questo film belga che ricolloca l’individuo al
centro di una scena “più grande di lui”, dentro quel mondo in balìa dei tempi
in cui non siamo soltanto cittadini ma transfughi, vittime irreggimentate di
una socialità sclerotizzata da tetti e leggi.
Roberto Lasagna
(da Duellanti, ottobre 2013)
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