In collaborazione con il
Cinema &Teatro Macallè di Castelceriolo
"Miss Violence" di Alexandros Avranas (recensione)
In un appartamento normale,[1] una
famiglia apparentemente normale festeggia il compleanno della piccola undicenne
Angeliki. All’improvviso la ragazzina apre la finestra e, guardando in macchina,
accennando un sorriso, si butta nel vuoto. La camera dall’alto inquadra il
corpo riverso nel cortile. Il resto del film è occupato a delucidare le cause
di quel suicidio, a scoprire cosa si nasconda dietro la normalità di quella
famiglia. La famiglia è composta da due genitori/nonni, da Eleni, la loro
figlia adulta (che sembra perennemente in stato confusionale e che è madre single di due figli piccoli, Alkmini e
Philippos) e da altre due figlie adolescenti, Myrto e Angeliki (che è la
piccola suicida). Come in una tragedia greca che si rispetti, la verità si
rivela poco a poco: il padre /nonno ha una relazione incestuosa con la figlia Eleni
e probabilmente è il vero padre dei due figli di lei. Egli per di più, oltre ad
abusare delle figlie e della nipote, governa un giro di prostituzione che coinvolge
dapprima Eleni, poi la quattordicenne Myrto, fino alla piccola Alkmini. Vende a
terzi le loro prestazioni sessuali, per raggranellare quattrini e permettere
alla famiglia un discreto tenore di vita, realizzando così una sorta di economia
domestica fondata sull’incesto, l’abuso e la violenza. La moglie/nonna sa tutto
e copre la situazione, fino a quando, nelle ultime battute del film, dopo l’episodio
della prostituzione e della violenza nei confronti della piccola Alkmini, usando
un coltello domestico accuratamente pulito e lucidato, non provvede a uccidere
il carnefice. Ma, e qui sta il vero coup
de theatre, lo fa soltanto per prendere il suo posto. Il carnefice è stato
giustiziato ma la porta dell’appartamento si rinchiude nuovamente sui
sopravvissuti e il giustiziere diventa il nuovo oppressore. Da quella casa si
esce soltanto volando dalla finestra, come la piccola Angeliki.
Questa è la trama sintetica di «Miss
Violence» di Alexandros Avranas, vincitore a Venezia del Leone d’argento e
della Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile (a Themis Panou per
la parte del nonno / padre). Sul piano narrativo nel resto del film accade ben
poco d’altro. Forse le uniche cose che accadono
davvero sono il suicidio iniziale e l’omicidio finale. Quel che poi viene mostrato
in aggiunta è la progressiva delucidazione della realtà che si trova dietro le
quinte, una realtà fatta di ripetizione e di quotidianità, per quanto
raccapricciante in tutti i suoi dettagli. Il film non si limita tuttavia a
mettere in scena un efferato fatto di cronaca e i suoi antecedenti. L’orrore
della tragedia, peraltro quasi mai mostrato esplicitamente e direttamente,
serve come potente metafora per indagare la doppiezza della vita familiare e
più in generale della vita sociale, come modello esplicativo generale del
funzionamento dei rapporti di potere. Non solo uno schiaffo al perbenismo, ma una
vera e propria teoria sociologica, una specie di nichilismo anatomico quello di Avranas, attraverso cui viene proposta
una lettura spietata della nostra vita sociale. Si tratta di un film rigoroso
sul piano estetico, maniacale, implacabile e terribilmente consapevole sul
piano teorico. Si possono non condividere fino in fondo le tesi dell’autore, ma
è impossibile evitare di confrontarsi con esse.
Il film si svolge quasi interamente nel
chiuso claustrofobico di un appartamento di cui non riusciamo mai ad avere una
mappa compiuta. Grazie anche alle riprese ravvicinate, l’appartamento appare
come un labirinto, come un meandro di corridoi pieni di porte che si aprono e
chiudono continuamente. Lì dentro avvengono i giochi sottili che hanno per
posta il controllo e l’uso delle anime e dei corpi. La telecamera indugia
continuamente per spiare quel che avviene all’interno. Dei misteri della vita
quotidiana di quella famiglia possiamo avere solo degli stralci attraverso porte
socchiuse. Non a caso il film terminerà con una porta chiusa. Per rendere l’ordine
apparente e forzato della casa, Avranas fa poi anche un sistematico uso di
inquadrature fisse, con attori che entrano ed escono, con avvenimenti o che
accadono fuori quadro, e che possono essere ricostruiti sulla base del sonoro o
sulla base di vedute parziali. Questo permette di lasciare molto spazio al non
detto, alla ricostruzione e all’immaginazione dello spettatore. Permette allo
spettatore di fare delle continue verifiche delle proprie supposizioni, mano a
mano che la macchina da presa esplora quel piccolo mondo claustrofobico. Tra l’ordine
apparente e i dettagli sempre più strani, la camera di Avranas si muove con un andamento
euristico, continua a raccogliere indizi, mostra incongruenze, lascia in
sospeso le risposte, offre gli spunti per avanzare teorie interpretative che
via via risultano sempre più sconvolgenti.
Uno dei pregi maggiori del film, per
almeno i 2/3 della sua durata, è proprio quello di rappresentare, lucidamente e
ossessivamente, una normalità che ha tutte le sembianze di un’autentica normalità
ma che vien costantemente smentita da dettagli, indizi, incoerenze, ambiguità che
rinviano continuamente a qualcos’altro, che fanno presagire che le cose siano
diverse da come appaiono. In proposito va ricordata la magistrale lunga
sequenza del sopraluogo nell’appartamento da parte degli ispettori dell’assistenza
sociale. La normalità apparente viene recitata nel composto dolore per la
scomparsa di Angeliki, nel ruolo di guida responsabile che il nonno/padre si
assume in un momento così difficile, nell’espletamento delle pratiche, nel
contatto con gli assistenti sociali, nel tentativo amorevole di aiutare i
bambini più piccoli a superare il trauma e a riprendere la vita normale. Poco a
poco però le incrinature sia fanno via via più numerose, si accumulano e così
si rivelano chiavi di lettura sempre più imbarazzanti, sempre più
raccapriccianti. Rifiutando le numerose dissonanze,
dapprima lo spettatore è indotto a negare, a mettere da parte certi dettagli,
ma poi è costretto poco a poco a costruire un tutt’altro quadro e a scoprire
che dietro la casa della normalità si nasconde una casa degli orrori. È un film
che mette magnificamente all’opera la logica abduttiva e il metodo indiziario,
nel contesto di fondo di una radicale filosofia
del sospetto.
Avranas mostra, con il progredire della sua
trama, quel che già aveva scoperto la Arendt a Gerusalemme e cioè che l’orrore
più orrendo è quello che veste i panni della normalità, che il sistema
oppressivo più ripugnante è quello che si costruisce con gli ingredienti dei
piccoli gesti della vita quotidiana, con le parole persuasive, con l’accudimento,
con la distribuzione di gelati e pasticcini, con la promessa di andare al mare,
con il bacio della buona notte. Ci si accorge così che la normalità e l’orrore
sono talmente intrecciati da risultare indisgiungibili, reciprocamente
funzionali. Il nonno /padre non è affetto da disturbo bipolare, non è alternativamente
il dottor Jeckyll e mister Hyde, rappresenta piuttosto la perfetta e inaudita fusione
degli opposti, è un amorevole padre di famiglia che violenta, stupra e
prostituisce, ma lo fa con dedizione, con senso del dovere, con umiltà, avendo
cura delle proprie vittime, per il loro bene, per la salvaguardia e la continuazione
della famiglia stessa. Nella casa non convivono due ordini opposti, ma un unico
ordine, totalizzante, quasi armonico nella sua follia. Solo il suicidio di
Angeliki ha turbato l’armonia e gli equilibri raggiunti con tanta fatica e
sacrificio.
Che il film di Avranas non intenda
rappresentare semplicemente un fatto di cronaca, un caso anomalo, come quelli
che sono recentemente comparsi sui giornali, ma che intenda fare un discorso ben
più ampio, lo si comprende dal fatto che tutte le articolazioni della società
con cui i protagonisti vengono a contatto, dai funzionari dell’assistenza ai datori
di lavoro, fino ai clienti delle pratiche prostitutive, presentano anch’essi gli
stessi tratti patologici. La stessa impersonalità, la stessa ottusità, la
stessa fredda e agghiacciante meccanica relazionale, la stessa dedizione a far
bene le cose, a ricoprire puntigliosamente i propri ruoli, producendo più o
meno consapevolmente, come risultato, un sistema complessivo dell’orrore. Abbiamo
parlato in apertura di nichilismo
anatomico. Spesso gli attori indugiano in una fissità estraniata, le scene
sono composte con una fotografia fredda che ha come risultato il fatto di
rendere i personaggi iperreali, più tipi ideali che esseri in carne e ossa. Il
grande impatto del film sullo spettatore non è giocato attraverso l’identificazione
emotiva con i personaggi, bensì attraverso la ricostruzione cognitiva, che è
resa poco a poco possibile, dell’universo concentrazionario della famiglia di
Angeliki. Proprio grazie a questa ricostruzione cognitiva gli eventi del film
si prestano a costituire una metafora di tutti i sistemi di oppressione dove questa
si maschera della normalità e dove le
vittime sono di fatto complici e dove il tutto viene avallato dai testimoni
che sanno tutto, o che potrebbero sapere tutto, ma che si volgono sempre dall’altra
parte e, all’occasione, sfruttano la situazione per il proprio tornaconto.
Il film di Avranas si presta così a molteplici
piani di lettura, a molteplici e complesse interpretazioni. Quella letterale,
della riproduzione del caso di cronaca è solo la più banale. Qualcuno ha voluto
vedervi anche una metafora della Grecia odierna, pressata dalla crisi
economica, costretta in un certo senso a divorare il futuro dei propri giovani
per sopravvivere. Quel che è certo è che il richiamo all’attualità greca, se c’è,
è molto indiretto. Ci sono invero pochi appigli. Il film sembra piuttosto una
metafora universalistica dei rapporti di potere nella famiglia e nella società
che s’instaurano attraverso la manipolazione dei corpi e delle menti. Un
discorso molto generale sull’ordine sociale, dunque, che risente forse di echi
prettamente foucaultiani. Una tesi
sopita, ma neanche troppo, che certo è presente nel film (non si sa quanto
consapevolmente), è che qualunque forma di educazione equivalga moralmente a
uno stupro. E non si tratta solo di stupro maschile, visto il finale, dove
vediamo la nonna prendere immediatamente il posto del nonno nell’amministrazione
della casa degli orrori. È una tesi decisamente anarchica, una tesi che non
distingue minimamente tra il potere esercitato direttamente sui corpi e la legittima
trasmissione culturale esercitata sulle anime. Sempre di violenza si tratta,
perché c’è sempre di mezzo il potere.
Violenza è la violenza televisiva (nell’appartamento
c’è una televisione spesso accesa che trasmette documentari naturalistici dove
si mostra una comunità di scimmie), la violenza della macchina fotografica, che
impone di irrigidirsi, di mettersi in posa per lo scatto (nel film abbondano episodi
in cui la famigliola s’immortala attraverso inquadrature fotografiche), la
violenza della danza vagamente sexy della bambina più piccola, appresa probabilmente
dalla televisione, fino alla violenza dell’immagine pornografica (cui si ispira
la scena della prestazione prostitutiva della giovane Myrto). Violento è il
denaro che compera le cose, il cibo, il gelato e i pasticcini ma che è anche il
primo mediatore dei rapporti di potere tra le persone e della mercificazione dei
loro corpi. Violente sono le pratiche punitive (la sorellina costretta a schiaffeggiare
il fratello) ma moralmente violente sono anche le cure, le attenzioni, i
regali, le promesse. Violento è anche l’altruismo (il nonno accetta di perdere
il posto di lavoro per poter andare a scuola a ritirare la pagella del piccolo
Filippos) oppure l’assistenza amorevole ai bambini quando fanno i compiti. Violenta
soprattutto è poi la passività, l’accondiscendenza: Eleni, la figlia /madre
impasticcata, priva di una sua volontà, si presta a tutte le recite, a tutti
gli infingimenti, è una persona completamente svuotata, il perfetto risultato
della pedagogia del potere e della violenza.
Anche la nonna è accondiscendente. Lascia
trasparire qualche segno di disagio, sicuramente è anch’essa sottoposta a
ricatto della violenza, lo si coglie dai numerosi lividi, ma all’occorrenza sa
perfettamente da che parte stare. È colei che ha sopportato di più la situazione
della figlia e dei nipoti, è colei che è la testimone depositaria di tutta la
storia familiare. Certo, alla fine è lei a uccidere il carnefice, ma per prenderne subito il posto. Con
questo fulmineo rovescio narrativo Avranas trasmette allo spettatore la sua
verità più dura, il pugno nello stomaco definitivo: assistere alle violenze
morali e materiali senza far nulla
non lascia la nostra coscienza inalterata, bensì ci trasforma inesorabilmente,
ci rende del tutto simili a coloro che perpetrano le violenze, alimenta il
potenziale mostro che si trova dentro ciascuno di noi. Non è possibile alcuna
neutralità, la violenza penetra dentro e alla fine non si può che diventare
violenti.
Si affaccia così una terribile filosofia
della società e della storia. Il potere e la sopraffazione si trasmettono di
generazione in generazione attraverso il controllo violento dei corpi e delle
anime. In questo senso Avranas sembra suggerire che lo stupro c’è sempre, sia
esso effettivo o soltanto simbolico. In fondo quel che il regista ci propone
non è altro che una versione del complesso di Edipo semplicemente rovesciata:
qui non sono i figli che immaginano rapporti sessuali con il genitore, ma è il
genitore che pratica effettivamente rapporti sessuali con i figli. Nella casa di
Avranas, metafora della società intera, l’esser violentati dai padri padroni
delle generazioni precedenti pare essere la sola condizione consuetudinaria per
poter diventare poi, a propria volta, adulti e violentatori perfettamente bene
adattati.
Così si spiega anche l’assoluta assenza
di qualsiasi dilemma morale, di qualsiasi discorso morale tra i protagonisti. L’assenza
cioè di qualsiasi forma autentica di responsabilità. Anche i funzionari (la
preside, gli assistenti sociali, gli impiegati degli sportelli) fanno solo
sempre il loro dovere, non ritengono di avere responsabilità morali, anche loro
sono stati amorevolmente «educati». Solo in un passaggio del film Myrto, la
figlia più grande, prova a parlare con la madre/nonna dell’autentica situazione
della famiglia e prova a metterla di fronte alle sue responsabilità. Ma la
nonna non ci sente. In un universo dove tutti sono costretti, sono premuti,
dove si devono rispettare le regole, non c’è spazio per l’autonomia morale. L’uccisione
finale dell’aguzzino da parte della nonna è solo un’uccisione psicoanalitica
del padre padrone: una volta ucciso non resta che prenderne il posto e imitarlo
fino in fondo. Angeliki, l’unico personaggio positivo, può realizzarsi sul
piano morale soltanto sottraendosi, rinunciando a quel mondo malato, al nostro mondo malato, saltando nel vuoto con
l’accenno di un sorriso.
7/12/2013
NOTE
[1]
Poiché racconterò il finale, chi non volesse conoscerlo in anticipo non ha che
da sospendere la lettura e continuarla dopo aver visto il film.
Iscriviti a:
Post (Atom)